martedì 1 agosto 2017

Vladimiro Bottone – Il giardino degli inglesi. La dolcezza seducente del Male

LoreGasp

… inizio il post con una piccola avvertenza. Se avete già letto Vicarìa, potete andare avanti. Se non avete letto Vicarìa, fermatevi qui, uscite/aprite il pc e andate in libreria, procuratevelo subito e leggetelo. Poi, procedete con l’acquisto de Il giardino degli inglesi, dato che ci siete.

Lessi Vicarìa due anni fa, per la rubrica radiofonica Scrittori Made in Campania, per Radio Piazza Live, e ne rimasi stregata fino in fondo. Paragrafi del libro, dialoghi e caratterizzazioni ogni tanto mi si affacciavano alla memoria. Un bellissimo atto di nostalgia, che mi piaceva rinnovare. Per quanto fosse una storia auto-conclusiva, Vicarìa lasciava una porta aperta. Questo si traduce, in un lettore, in una spasmodica attesa del resto. Una preghiera quotidiana e anche imperiosa, che lo scrittore e l’editore dessero alle stampe nottetempo il libro con le chiavi, le soluzioni, i nomi, i visi tenuti velati.

E la porta aperta di Vìcaria introduce ad un giardino. Il giardino degli inglesi di cui si parla è un cimitero. Esiste, a Napoli, un cimitero monumentale, ilCimitero acattolico di Santa Maria della Fede, che fu costruito su impulso della forte comunità britannica sul territorio, nel 1821, e che ha una storia piuttosto interessante, nelle sue pietre.

Ed è qui che arriva Peter Darshwood per trovare il suo posto definitivo accanto all’amatissima sorella Emma, l’angelica Signorina Darshwood insegnante di musica dei piccoli di Vicarìa, unica luce nel buio senza requie di quel posto altamente ipocrita. Nel libro precedente, Emma fu uccisa da Michele Florino, il sadico soprintendente del Serraglio, figura di copertura e di distrazione da un demone ben più altolocato e socialmente accettabile. Spinto da un dolore insopportabile, il fratello piombò a Napoli per scoprire le vere cause dell’omicidio, e finì per scontrarsi a duello con Domenico De Consoli, l’anima nera in redingote inappuntabili, il progettista esecrabile della soppressione di Emma. (Per chi ha letto Vicarìa: rileggetevi il brano del duello, e stupitevi di come l’autore lo ha costruito in modo insuperabile.)

Il giovane apparentemente sopravvisse allo scontro. Non era destino, però, che tornasse a camminare tra i vivi. Pochi giorni dopo, all’ospedale dove fu ricoverato, i medici curanti ne constatarono il decesso.

Tutto finito, quindi. I giovani Darshwood sotto terra, gran cordoglio della comunità inglese di Napoli, che si stringe intorno alla sorella sopravvissuta, la maggiore Frances Darshwood, sposata ad un funzionario importante, Giacomo Petrella. L’esimio dottor De Consoli, al centro di questo increscioso caso, può continuare a essere stimato, temuto, adorato dai suoi pari e dai suoi clienti danarosi, e dai piccoli infelici che la sua orribile carità cattura immancabile, traviandoli con il sorriso dolce e accondiscendente del predatore troppo forte e troppo furbo.

In realtà, non è finito proprio niente. Gioacchino Fiorilli, il Commissario del quartiere che non aveva esitato a rischiare fortissimo in prima persona per la giovane Emma e l’ancor più giovane vittima Antimo, non è disposto a chiudere così la vicenda, sapendo nel proprio cuore che Domenico De Consoli è ancora vivo, libero e sorridente di uccidere per interposta persona, e fare il male. Apparentemente, è solo in questa caccia al predatore che non è mai finita. I suoi colleghi sono impegnati in altro, c’è talmente tanto da raddrizzare o da far finta di raddrizzare, in quel quartiere turbolento, che si girano indifferenti per la loro strada.

Napoli, però, non è riuscita a sterminare tutti i Darshwood. Poco dopo l’omicidio di Peter, arriva Edward Darshwood, stimato pittore ritrattista della buona società inglese, spinto dallo stesso dolore del figlio, in cerca di risposte e di pace per se stesso: in pochi mesi ha perso la figlia perfetta, la preferita, e il giovane erede, amato e temuto allo stesso tempo. Da straniero, e per di più da padre sconvolto per il duplice lutto, il pittore fa troppe domande, è troppo diretto, vuole tutte le risposte subito, vuole quel nome, vuole conoscere gli ultimi momenti del figlio, le sue ultime frequentazioni. Cerca un’alleata in Frances, che non lo segue e lo frena nella sua corsa cieca e sbadata verso la verità e la giustizia. A Napoli non ci si muove così, con la spada in pugno e scintillanti di sdegno e di furia riequilibratrice: si finisce in un pantano molle che toglie le forze, disarma, stordisce, distrae, e se non si ritorna sui propri passi, si rivela mortale.

Edward Darshwood, tuttavia, non si muove completamente al buio, per quanto sempre troppo goffamente per i modi borbonici. Sa che esiste un fascio di lettere, una corrispondenza appassionata e affettuosa tra Emma e Peter, che contiene la chiave e il nome, o i nomi, risolutori. Tuttavia, non sa dove si trovino le lettere, che cerca in tutti i modi. Peter le aveva nascoste in un modo ingegnoso, che rivelò tempo prima ad una persona insospettabile, e fuori dal giro dei personaggi di spicco: Martha Frank, giovane e impetuosa moglie di Joseph Frank, un altro medico importante, collega di De Consoli, ma solo di professione. Il suo animo e il suo spirito sono improntati alla ricerca della verità e dell’onestà più rigorose.

Nella sua ostinazione, il pittore inciampa letteralmente in una piccola testimone, una giovanissima fioraia dodicenne di nome Palmina, che dimostra di aver conosciuto suo figlio, rivelandoglielo nel suo modo selvatico e diffidente. Gli adulti non sono teneri con i bambini, e quando li trattano bene vogliono qualcosa da loro, e non si tratta mai di uno scambio buono o anche solo alla pari. Tuttavia, quella “pista investigativa” lo porterà a scontrarsi con un lato oscuro della città che lo farà arretrare con il cuore a pezzi.

D’ora in avanti, è necessario che acquistiate il libro e seguiate, passo dopo passo, tutti i personaggi nella loro ricerca. Alcuni, come abbiamo visto, cercano la verità, la pace, la giustizia, una ragione con cui mettere fine ad un dolore insensato. Altri, come De Consoli, cercano solo la soddisfazione puramente egoistica da predatore mai sazio dei propri appetiti, e pazienza se sono discutibili o si avventano sulla fragilità, la vulnerabilità e il corpo altrui. Danni collaterali, trascurabili.

Nell’esercizio del proprio potere, che sia sociale o personale, vale solo la vittoria prepotente sugli altri, ottenuta con il gioco scaltro e seducente del Male paziente e affamato. De Consoli, l’anima nera in abiti immacolati, non è mai violento, se non nei propri impulsi: è seducente, intelligente, educato, dai modi impeccabili e santi. Mai una parola fuori posto, un gesto che potrebbe perderlo… tutto è sempre molto calcolato. Al punto che può persino permettersi di sbilanciarsi su qualche punto e gustare il sapore pungente e inebriante dell’essere quasi scoperto.

Quasi, però. De Consoli è il Male intelligente e paziente.

Scrivo su di lui, e mi concentro su di lui. È il personaggio più odioso, che ispira disgusto e anche ammirazione. Tanta intelligenza e raffinatezza pervertite in quel modo. Come in Vicarìa, non ho mai smesso di cercarlo nelle pagine, anche quando non c’era, per poterlo odiare. E quando compariva, mi aspettavo da un momento all’altro di vedere il viso tirato e appassionato di Gioacchino Fiorilli, l’unico che può stargli alla pari perché lo legge meglio di un libro aperto, e che meglio resiste ai giochetti seducenti del De Consoli, che vorrebbe indurlo in tentazione, vorrebbe farsi prendere da lui, ma ha bisogno di testarlo, di sapere se il Commissario è davvero all’altezza.

E Fiorilli lo è. Quando non indossa la pesante cappa e la scintillante spada da tutore dell’ordine, con il suo animo coraggioso che sa leggere il Male, lo potrebbe incastrare, amputargli gli artigli da corruttore. Non lo fa, la sua onestà e l’obbedienza alla Legge gli inceppano i meccanismi. Purtroppo, essere dalla parte etichettata come “giusta” non sempre significa essere liberi di far tutto, per essere “giusti”.

Intorno, c’è Napoli. Il suo spirito borbonico, la sua lentezza, la sua bellezza placida che copre il buio, la sua spiccata tendenza al commercio, al baratto, di qualunque genere, l’accordo tra le parti per fare in modo che tutto stia com’è, le alleanze anche improbabili per raggiungere mete, risultati, bottini di oro o di carni. Gli innumerevoli lacci molli lasciati cadere intorno alle caviglie di chi va troppo in fretta, in direzione contraria, o di chi vuole rovinare uno status quo soddisfacente per tanti, soprattutto quelli che amano nascondersi tra le ombre. Si rischia di rimanere affascinati e invischiati da questo mondo così particolare, che segue leggi tutte sue, che ti sorride con gli artigli sguainati, invitandoti a scegliere l’opzione adatta.

Non lo avrei creduto possibile, ma Il giardino degli inglesi ha superato in crudeltà, impulsi sanguigni e languore delittuoso l’atmosfera a tratti morbosa di Vicarìa. Ci sono meno spade sguainate, meno sangue versato del primo, ma molta più tortura psicologica, più asprezza e cattiveria nei rapporti umani, più giudizi e condanne senza appello, e non mi riferisco solo all’ambiente legale.
Anche lo stile dell’autore si è ulteriormente raffinato, espanso. Dialettale e schietto nella brutalità infinita dell’abiezione umana, e sottilmente derisorio nelle affermazioni ipocrite scambiate tra i pari dell’alta società, pomposo e inutile nei magistrati assurdamente compiaciuti del proprio piccolo e sterile potere, esercitato sui deboli e gli ignoranti.


Leggere Vicarìa e Il giardino degli inglesi equivale ad un soggiorno di formazione nella conoscenza dell’animo umano. Preparatevi a ritornare nelle vostre realtà più stanchi, ma più arricchiti.

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